Percennio

 

    Nel proseguire questa analisi del realismo nella letteratura antica ci dobbiamo ora chiedere quali siano dunque i limiti della "coscienza storica", dal momento che il quotidiano ed il "basso" sembrano non avere il diritto di essere descritti in contesti seri ed assunti come effettivi problemi degni di essere tenuti in conto ed analizzati per quello che effettivamente rappresentano: in fondo, infatti, è proprio nell'essenza del quotidiano che serpeggiano ed infine si rivelano tutti i movimenti che - osservati nel loro moto collettivo - danno luogo ai rivolgimenti di cui è costellata la Storia o più semplicemente a tutti quei lenti ma inarrestabili mutamenti cui si dà nome di Progresso. 

    A questo proposito Auerbach suggerisce di prendere in esame un testo storico praticamente coevo all'opera di Petronio, e nella fattispecie l'episodio narrato da Tacito (Annales, I, 16 - 17) della rivolta - alla morte di Augusto - delle legioni della Pannonia, sotto la guida di Percennio. A seguito della morte dell'imperatore, racconta Tacito, il comandante delle truppe di stanza in Pannonia, Giunio Bleso, aveva trascurato di occupare i suoi soldati nei soliti compiti di routine. In questo modo i soldati avevano preso ad oziare e chiacchierare, dimenticando fatiche e doveri. 

XVI [...]   Erat in castris Percennius quidam, dux olim theatralium operarum, dein gregarius miles, procax lingua et miscere coetus histrionali studio doctus. Is imperitos animos et quaenam post Augustum militiae condicio ambigentis inpellere paulatim nocturnis conloquiis aut flexo in uesperam die et dilapsis melioribus deterrimum quemque congregare.
XVII. Postremo promptis iam et aliis seditionis ministris uelut contionabundus interrogabat cur paucis centurionibus paucioribus tribunis in modum seruorum oboedirent. Quando ausuros exposcere remedia, nisi nouum et nutantem adhuc principem precibus uel armis adirent? satis per tot annos ignauia peccatum, quod tricena aut quadragena stipendia senes et plerique truncato ex uulneribus corpore tolerent. Ne dimissis quidem finem esse militiae, sed apud uexillum tendentis alio uocabulo eosdem labores perferre ac si quis tot casus uita superauerit, trahi adhuc diuersas in terras ubi per nomen agrorum uligines paludum uel inculta montium accipiant. Enimuero militiam ipsam grauem, infructuosam: denis in diem assibus animam et corpus aestimari: hinc uestem arma tentoria, hinc saeuitiam centurionum et uacationes munerum redimi. At hercule uerbera et uulnera, duram hiemem, exercitas aestates, bellum atrox aut sterilem pacem sempiterna. Nec aliud leuamentum quam si certis sub legibus militia initetur, ut singulos denarios mererent, sextus decumus stipendii annus finem adferret, ne ultra sub uexillis tenerentur, sed isdem in castris praemium pecunia solueretur. An praetorias cohortis, quae binos denarios acceperint, quae post sedecim annos penatibus suis reddantur, plus periculorum suscipere? non obtrectari a se urbanas excubias: sibi tamen apud horridas gentis e contuberniis hostem aspici. XVIII. Adstrepebat uulgus, diuersis incitamentis, hi uerberum notas, illi canitiem, plurimi detrita tegmina et nudum corpus exprobrantes.

Si trovava nell'accampamento un certo Percennio, un tempo a capo delle claques pagate ai teatri, poi soldato semplice, insolente ed esperto nell'istigare rivolte popolari grazie alla sua passione per gli attori. Costui incitava, poco a poco, con discorsi tenuti di notte o sul far della sera, i soldati che erano inesperti e chiedevano quali sarebbero state le condizioni di vita per l'esercito dopo la morte di Augusto e, allontanati i più esperti, radunava tutti i peggiori elementi. Infine, quando furono disponibili anche altri complici per la rivolta, chiedeva loro, col tono di chi si appresta a fare un discorso pubblico, per quale motivo obbedissero come schiavi ai pochi centurioni ed al numero ancor più esiguo di tribuni. Quando avrebbero osato chiedere dei cambiamenti, se non supplicavano o attaccavano in armi l'imperatore ora che si trovava ad essere appena eletto ed ancora indeciso? Avevano sbagliato abbastanza per tanti anni a non fare nulla, dato che sopportavano 30 o 40 anni di servizio militare, vecchi e per lo più con il corpo mutilato dalle ferite. Nemmeno per i congedati aveva termine il servizio militare, anzi dovevano svolgere le medesime fatiche, solo chiamate con un nome diverso, accampandosi come vessillarii. E se qualcuno fosse riuscito a scampare a tutte queste sventure rimanendo ancora in vita, veniva trascinato in diverse regioni, dove i soldati ricevono, col nome di "campi", paludi melmose e montagne senza vegetazione. Infatti il servizio militare è proprio fastidioso e non porta alcun guadagno: anima e corpo valgono 10 assi al giorno; e da questa cifra bisognava sottrarre (i soldi spesi per) la veste, le armi e le tende, e per evitare le sevizie dei centurioni ed ottenere l'esenzione dai compiti gravosi. Ma per Ercole ferite e botte, inverni terribili, estati faticose, guerre tremende e paci senza utilità non hanno mai fine. E non ci sarebbe stato alcun miglioramento di condizione che non iniziare il servizio militare a condizioni precise, di avere un denaro al giorno come paga, finire dopo 16 anni la leva, non essere impiegati dopo quella scadenza come vessillarii e pagare il compenso dovuto in denaro nell'accampamento stesso. Forse le coorti pretoriane, che ricevevano 2 denarii al giorno e tornavano a casa loro dopo 16 anni, affrontavano pericoli maggiori ? Non era sua intenzione biasimare le truppe urbane, tuttavia erano loro (i legionari) a vedere il nemico che usciva dalle sue tende, stando fra popoli spaventosi. La folla gridava, con diverse esclamazioni, alcuni mostrando i segni delle percosse, altri i capelli ormai bianchi, la maggior parte la veste logora ed il corpo nudo. 

Come fa osservare con acutezza Auerbach, ad un primo sguardo potrebbe sembrare che il brano dello storico racconti con serietà e dovizia di dettagli – sottolineati dal suo impareggiabile stile – la triste condizione dei soldati romani. Tuttavia subito si colgono le differenze rispetto ad un testo odierno di storia: innanzitutto Tacito ricorre all’espediente del discorso tenuto direttamente dal protagonista della vicenda, Percennio, e non inserisce assolutamente l’episodio in un contesto socio – economico di più vasta portata, che vada oltre al particolare. Inoltre – e proprio in conseguenza a quanto affermato – se il nostro storico non si pone il problema di discutere le cause che hanno portato alla rivolta è perché evidentemente neppure il suo pubblico di lettori se ne sarebbe interessato. In particolare colpisce il giudizio moralistico di Tacito, quasi fosse quest’ultimo la vera causa dei moti di ribellione che attraversavano l’esercito (nullis novis causis, nisi quod mutuatus princeps licentiam turbarum et ex civili bello spem praemiorum ostendebat, Annales, I, 16): c’è il suo sguardo severo, di conservatore ed aristocratico, che guarda ( e disprezza ) tutto dall’alto, lontano il più possibile dalla marmaglia dei soldati indisciplinati. Né d’altra parte Tacito si perita di contraddire le tesi dei soldati ribattendo colpo su colpo alle loro pretese, né tanto meno sembra impietosirsi davanti ad esse: gli è sufficiente mostrare il suo sdegno per bollarle come oltraggiose e pretenziose.

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