Punito perché cieco

    Per la maggior parte dei casi, l’uomo non ha la facoltà di capire subito quale sia la miglior condotta da adottare per attraversare indenne la sua esistenza: solo i saggi comprendono con anticipo come evitare lo jqonos divino. L’uomo comune impara dall’esperienza: il caso più drammatico è quando l’apprendimento passa attraverso una sciagura personale, ma esistono anche casi più fortunati di uomini che imparano dalle disgrazie che toccano altri a loro vicini. L’idea dell’apprendimento attraverso la sofferenza si trova in Eschilo, nel celebre paqei maqos (Agamennone, 177).

Quest’idea viene ripresa anche da Tacito in un celebre passo degli Annales (IV, 33):

Sic converso statu neque alia re Romana quam si unus imperitet, haec conquiri tradique in rem fuerit, quia pauci prudentia honesta ab deterioribus, utilia ab noxiis discernunt, plures aliorum eventis docentur.

Così, assistiamo alle vicende di Creso, cui la divinità ha concesso di imparare dalle proprie sventure senza annientarlo completamente, grazie al fatto di essere caro ad Apollo (I, 207), o a quelle di Ciro, che ebbe – come visto – l’opportunità di capire proprio commovendosi attraverso le vicende di Creso (I, 86-88), eppure la gettò al vento ritenendo di essere più di un uomo (I, 204 e il già citato I, 207) e finì per questo egli stesso in rovina.

Il concetto di apprendimento attraverso le disgrazie altrui si trova ad esempio in Sofocle (Aiace, 121-126), dove Odisseo, provando pietà per l’eroe sventurato e folle, comprende che l’uomo – tutti gli uomini – non sono che vana ombra:

Quest’ultimo è anche un concetto meta-letterario, perché è proprio dall’osservazione delle disgrazie e dalla compassione che esse suscitano che si innesca il fenomeno di catarsi per lo spettatore della tragedia, come formalizzato nella Poetica di Aristotele (Poetica, 1452b-1453b).

Permane, in Erodoto come nei tragici a lui contemporanei, il senso fortissimo di disorientamento nei confronti della divinità taracodes. E’ quello che Sofocle afferma infatti nell’Antigone, proprio dopo aver cantato le enormi potenzialità dell’uomo nel suo celebre Primo Stasimo: “per il futuro prossimo e per quello lontano – come già fu per il passato, questa legge varrà: nulla prospera nella vita dell’uomo senza che arrivi ath, sventura, maledizione ed accecamento”. Benchè Erodoto non citi mai espressamente il fenomeno dell’ath, ciechi sembrano i suoi eroi davanti al volere della divinità, e proprio dall’accecamento, dall’incomprensione causata da ubris o da stoltezza, nascono le sventure dei mortali. Sofocle così conclude il suo pensiero: “il male sembra un bene a chi è stato accecato dal dio ed ancora per pochissimo tempo costui è libero dall’accecamento”. Proprio dalla confusione indotta nell’uomo dalla divinità nasce l’errore che poi, per un senso di necessità inevitabile, deve essere punito. Il mortale non capisce – non può – ed attribuisce all’invidia della divinità la propria colpa. Questo il pensiero del tragico e questo anche il pensiero del nostro storico.

Il quadro che emerge in definitiva dalla lettura di questi passi di Erodoto evidenzia un uomo solo di fronte alla divinità, che è estremamente severa, pronta a punire ogni umano eccesso ed estremamente poco propensa a concedere ricompense. Tuttavia, l’uomo accetta con dignità la sorte che gli è stata attribuita, fino alle estreme conseguenze che questa comporta: emblematico il caso di Adrasto (“a cui non si può sfuggire”, un nome parlante), che finisce per uccidere il figlio di Creso (che era stato dal padre a lungo tenuto lontano dalle armi, perché una profezia aveva predetto che proprio da una punta di ferro sarebbe stato ucciso) in una battuta di caccia (I, 35 e seguenti).

Alla fine Adrasto, consapevole del misfatto compiuto, decide di uccidersi: si possono intuire molte analogie tra i personaggi “tragici” di Erodoto e quelli di Sofocle. Un altro esempio significativo di rassegnata e dignitosa accettazione del proprio destino è il sacrificio di Leonida, che alle Termopili perde la propria vita nella consapevolezza che la morte di uno dei due re di Sparta (come predetto dall’oracolo) salverà la città (VII, 220).

A conclusione, riportiamo il pensiero di Serse, qui spoglio di presunzione e colmo invece di comprensione per i limiti dell’essere mortale di fronte all’imperscrutabile volere della divinità: nonostante tutto, è meglio soffrire metà delle sventure affrontando coraggiosamente ogni impresa, piuttosto che non patirne mai alcuna temendo anticipatamente ogni cosa (VII, 50).

Andrea Zoia

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