Gli dei sono invidiosi?

    E’ interessante a questo punto interrogarsi sulla cosiddetta “invidia degli dei (jqonos qewn)”, tema più volte ricorrente nell’opera di Erodoto. L’interpretazione tradizionale, che oggi viene ricusata, afferma che dall’opera del nostro storico emerga il senso di una divinità che abbatte uomini che nulla abbiano fatto di male, per il semplice fatto di essere “felici e fortunati” e di suscitare – appunto – l’invidia del dio. Oggi si tende a riesaminare innanzitutto la traduzione stessa dell’espressione greca impiegata per indicare l’invidia (cfr. Erodoto, Storie, BUR, Introduzione): il verbo jqonew  (usato fin da Omero) ed il sostantivo derivato jqonos  (attestato già nei lirici Pindaro e Bacchilide) hanno il significato primigenio di “negare”, “vietare” od “opporsi” e di “divieto”, rispettivamente. E’ questa, ad esempio, l’accezione del verbo impiegata da Penelope nell’Odissea quando “vieta” all’aedo di cantare le disavventure degli Achei al ritorno da Troia, per non farsi rattristare dal ricordo del marito assente (Odissea, I, 346-347).

Il verbo viene poi associato all’idea di “gelosia” (non invidia) in Esiodo, dove un aedo è appunto geloso di un altro aedo, che è suo rivale (Opere, 25-26).

La sfumatura di invidia sembra apparire per la prima volta in Pindaro e Bacchilide. Tuttavia, gli studiosi ritengono che il vocabolo abbia mantenuto, accanto alle nuove sfumature, anche il senso originario, come confermato ad esempio dallo stesso Pindaro, che, pur impiegando senza dubbio jqonos nel senso di “invidia”, nelle Istmiche lo utilizza palesemente nel senso di “divieto” (Istmiche, V, 24-25).

L’espressione jqonos qewn compare nei Persiani di Eschilo (Persiani, 362) e più tardi in Euripide (ad esempio in Supplici, 348), e mai in Erodoto: lo storico afferma invece che la divinità è jqoneros (I, 32 dove la divinità è definita inoltre taracodes, ovvero “che sconvolge”; III, 40; VII, 46) ed utilizza il verbo jqonew (VII, 10; VIII, 109), mentre chi suscita l’ira divina è definito epijqonos (IV, 205).

In particolare quest’ultimo passo è interessante per indagare il significato dello jqonos divino: Feretime, dopo aver compiuto un’efferata carneficina, muore di una terribile malattia, “perché le vendette umane troppo violente sono odiose (e non “invidiate”) agli dei (IV, 205)”.

Queste osservazioni sembrerebbero attestare che lo jqonos abbia almeno due possibili sfumature per quanto riguarda la sfera dei rapporti tra mortali: quando poi si consideri il rapporto uomo-divinità, in base alle considerazioni precedentemente esposte sul senso religioso di Erodoto e sul suo rispetto per il divino, parrebbe dunque lecito dubitare che lo storico abbia impiegato il sostantivo nel senso di “invidia”, quanto piuttosto in quello (più confacente?) di “divieto”. In questo caso, lo jqonos qewn sarebbe da intendere dunque come la proibizione che gli dei pongono a ciò che non attiene alla sfera dei mortali – e che dunque i mortali farebbero bene ad evitare in base a quel senso di misura (mhden agan) che deve contenere l’uomo ed impedire che cada nell’ubris. Secondo questa interpretazione – che, è bene sottolineare, non è comunque condivisa dalla totalità degli studiosi del lessico di Erodoto – sarebbe lo sfrontato superamento dei limiti cui il mortale deve sottostare ad innescare la punizione divina, minacciata implicitamente nello jqonos, ovvero nel divieto stesso di travalicare tali limiti. In particolare, in un passo estremamente suggestivo delle Storie (VII, 10, su cui torneremo in seguito), Erodoto afferma esplicitamente che il dio abbatte solo ciò che emerge, proprio per il fatto di emergere: la divinità fulmina gli animali più grandi e gli edifici e gli alberi più alti, perché quelli piccoli e bassi non la infastidiscono. Il dio, infatti, non permette ad alcuno – fuorché a se stesso – di coltivare propositi di grandezza.

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