Ov’Ercole segnò li suoi riguardi, acciò che l’uom più oltre non si metta

   A questo punto il lettore si chiede come sia possibile che – accettata questa interpretazione lessicale del concetto di divieto divino – alcuni personaggi di Erodoto sembrino condannati ad atroci destini per il semplice fatto di possedere un’esistenza felice e fortunata: emblematico a questo proposito ad esempio il discorso di Solone a Creso, di cui riportiamo un celebre passo (I, 32).

Ulteriori conferme sembrano venire dalle parole di altri personaggi: Amasi scrive a Policrate sottolineando che la divinità è jqoneros, perché di nessuno egli ha sentito parlare che – pur essendo estremamente fortunato – non abbia fatto una fine terribile (III, 40).

Simile il discorso di Artabano con Serse (VII, 46).

Rileggendo con attenzione le vicende di questi tre personaggi, ci si accorge tuttavia che essi peccarono di eccessiva presunzione ed ambizione, oltre ad aver goduto di una grande fortuna. Ecco che, dunque, la vendetta divina colpisce Creso (uccidendogli il figlio Atys, perito in una tragica battuta di caccia per mano di un ospite dello stesso Creso) per il fatto di aver pensato di essere il più felice tra tutti gli uomini (I, 34).

Serse è punito per la propria sfrenata ambizione, contro la quale lo aveva messo in guardia Artabano, che si appellava al divieto divino, interpretandolo in chiave morale, perché vedeva gli obiettivi di Serse come uno sconfinamento nell’ubris (VII, 10e).

 Tale punto di vista viene fatto proprio da Temistocle, che esclamerà: “Gli dei non permisero (ejqonhsan) che un uomo solo – per di più empio e sfrontato – avesse potere su Europa ed Asia (VIII, 109)”.

Il caso di Policrate è quello più controverso dal punto di vista dell’interpretazione del significato di jqonos, perché lo stesso Erodoto non impiega gli usuali vocaboli che indicano la trasgressione dei limiti dei mortali. Tuttavia, l’intero episodio mostra ripetutamente come il tiranno fosse dispotico, affamato di dominio, crudele ed avido di ricchezze (III, 39; III, 122-124).

Dunque si può almeno congetturare che questa sua condotta lo rendesse agli occhi di Erodoto colpevole dello stesso delitto di ubris di cui si sono macchiati gli altri due personaggi citati.

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