Gli oratori attici

 

    Una parola a parte meritano i grandi oratori attici. I testi della tradizione dell’oratoria attica a noi pervenuti sono per la quasi totalità del genere giudiziario, poichè le sole orazioni a carattere non giudiziario sono quelle di Demostene. Una ragione può essere dovuta al fatto che spesso in assemblea l’oratore improvvisava senza recitare un testo preparato in precedenza, ma riferendosi piuttosto “a braccio” ad un repertorio di luoghi comuni e figure pronti all’uso. Significativa, a questo proposito, è l’indiretta testimonianza dello storico Tucidide, che, citando i discorsi diretti di grandi statisti (da Pericle ad Alcibiade, da Cleone a Nicia), afferma di non averli potuti ricostruire a memoria e di essersi limitato a ricostruirne il senso generale, evidentemente perchè queste orazioni non avevano ricevuto una sistemazione scritta. Plutarco afferma inoltre che Pericle non aveva lasciato nulla di scritto (Per. 8,6), e Platone aggiunge che i cittadini più illustri si vergognavano di lasciare testimonianze scritte, temendo di essere poi chiamati “sofisti” (Fedro, 257d).

Ai tempi di Demostene, tuttavia, già la situazione si era modificata e la professione di retore è divenuta stimata e temuta, intrisa di una precisa connotazione politica: i rethores più influenti sono circondati da alcuni oratori minori (come Iperide, ad esempio) e talvolta vengono a scontrarsi con i “cani del popolo”, che si pongono come difensori del popolo dagli attacchi dei “lupi”, cioè degli oratori maggiori.

Per quanto riguarda i discorsi concepiti appositamente per essere letti e non recitati in pubblico, sappiamo che anche questi ultimi in realtà finivano spesso per essere recitati alla presenza di un pubblico ristretto, interessato al valore artistico della composizione letteraria: questo fatto giustifica la maggiore elaborazione di questi testi rispetto a quelli effettivamente destinati ad essere pronunciati in pubblico. Ecco spiegata la differenza tra le orazioni di Demostene, che si ritiene – ma non unanimemente – siano stati effettivamente pronunciati in pubblico, e quelle di Isocrate, che compose invece discorsi epidittici destinati alla recitazione.

Particolarmente interessanti sono i Proemi di Demostene, che consentono di comprendere il metodo di lavoro impiegato dal grande oratore: come ricorda anche Plutarco (Dem 8,5), Demostene parlava tenendo pronte solo delle parti dei suoi discorsi, “nè improvvisando completamente, nè avendo un testo tutto scritto”. I Proemi costituirebbero appunto questi parziali svolgimenti, utili per preparare il discorso.

Per quanto riguarda i discorsi giudiziari superstiti, pare che essi non siano predisposti per un’edizione, perchè accennano senza citarle alle leggi che sicuramente venivano poi lette direttamente in tribunale e si parla sovente della clessidra che andrebbe arrestata per leggere i documenti: queste ed altre osservazioni fanno presumere che queste orazioni non nacquero per essere pubblicate. In effetti, i discorsi giudiziari ottenevano la loro prima pubblicazione quando passavano di mano dal logografo al cliente. Quattro sono le raccolte superstiti di orazioni giudiziarie: Demostene, Isocrate, Lisia e oratori minori. Spesso, tuttavia, questi discorsi arrivavano presso i librai per essere pubblicati quando erano stati già usati dai clienti dei logografi, e magari modificati ed alterati anche nelle loro linee essenziali: i librai, senza dubbio, provvedevano comunque ad attribuirli al celebre logografo per incrementarne le vendite.

    Andrea Zoia

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