Tacito,

Annales

 

Emergono i primi nomi dei congiurati (Liber XV, 56)

56. Si convoca allora Natale e i due vengono interrogati separatamente sulla natura del colloquio e sull'argomento discusso. Poiché le risposte non coincidevano, nacquero dei sospetti e i due furono imprigionati. Non ressero alla vista dei mezzi di tortura e alle minacce del loro impiego. Ma il primo a parlare fu Natale, più informato su tutta la congiura e più esperto nel muovere accuse: inizialmente svela il nome di Pisone e fa seguire quello di Anneo Seneca, o perché davvero intermediario tra lui e Pisone o per trovar credito agli occhi di Nerone, il quale, nella sua radicale ostilità a Seneca, cercava ogni appiglio per toglierlo di mezzo. Quando seppe che Natale aveva parlato, anche Scevino, debole come lui e convinto che tutto fosse scoperto e che il silenzio non servisse più, rivelò chi erano gli altri. Fra questi, Lucano, Quinziano e Senecione negarono a lungo; ma poi, corrotti con la promessa dell'impunità, per farsi perdonare il ritardo, Lucano fece il nome della propria madre, Quinziano e Senecione denunciarono i loro amici più cari, rispettivamente Glizio Gallo e Annio Pollione.

Testo originale

Ergo accitur Natalis et diversi interrogantur quisnam is sermo, qua de re fuisset. tum exorta suspicio, quia non congruentia responderant, inditaque vincla. et tormentorum aspectum ac minas non tulere: prior tamen Natalis, totius conspirationis magis gnarus, simul arguendi peritior, de Pisone primum fatetur, deinde adicit Annaeum Senecam, sive internuntius inter eum Pisonemque fuit, sive ut Neronis gratiam pararet, qui infensus Senecae omnis ad eum opprimendum artes conquirebat. tum cognito Natalis indicioScaevinus quoque pari imbecillitate, an cuncta iam patefacta credens nec ullum silentii emolumentum, edidit ceteros. ex quibus Lucanus Quintianusque et Senecio diu abnuere: post promissa impunitate corrupti, quo tarditatem excusarent, Lucanus Aciliam matrem suam, Quintianus Glitium Gallum, Senecio Annium Pollionem, amicorum praecipuos, nominavere.

 

Delatori e processi sommari ovunque (Liber XV, 58)

58. Infatti neppure un Lucano, un Senecione o un Quinziano cessavano di fare i nomi dei complici, uno dopo l'altro, mentre col passare del tempo il terrore di Nerone ingigantiva, benché si fosse trincerato dietro le sue guardie, moltiplicate di numero. E non basta: mise, si può dire, la città stessa in prigione, con le mura occupate da manipoli e col litorale e il fiume tenuti anch'essi sotto controllo. Per le piazze, per le case e anche nelle campagne e nei municipi vicini scorrazzavano fanti e cavalieri, mescolati ai Germani, dei quali il principe, perché stranieri, si fidava. Era una processione continua di gente trascinata in catene e addossata agli ingressi dei giardini. Una volta introdotti, per lo svolgimento del processo, si vedevano imputare come colpa non solo la simpatia dimostrata verso i congiurati, ma discorsi casuali e fuggevoli incontri, oppure la presenza contemporanea a un banchetto o a uno spettacolo; mentre, oltre agli spietati interrogatori di Nerone e Tigellino, imperversava durissimo anche Fenio Rufo, ancora non nominato dai delatori e implacabile verso i compagni, per dar credito alla sua estraneità. Proprio lui, a Subrio Flavo, che gli sedeva di fronte e gli chiedeva a cenni, se dovesse, in piena istruttoria, impugnare la spada e compiere l'uccisione voluta, fece cenno di no e fermò il gesto del complice, che già portava la mano all'impugnatura della spada.

Testo originale

Non enim omittebant Lucanus quoque et Senecio et Quintianus passim conscios edere, magis magisque pavido Nerone, quamquam multiplicatis excubiis semet saepsisset. Quin et urbem per manipulos occupatis moenibus, insesso etiam mari et amne, velut in custodiam dedit. volitabantque per fora, per domos, rura quoque et proxima municipiorum pedites equitesque, permixti Germanis, quibus fidebat princeps quasi externis. continua hinc et vincta agmina trahi ac foribus hortorum adiacere. atque ubi dicendam ad causam introissent, laetatum erga coniuratos et fortuitus sermo et subiti occursus, si convivium, si spectaculum simul inissent, pro crimine accipi, cum super Neronis ac Tigellini saevas percontationes Faenius quoque Rufus violenter urgeret, nondum ab indicibus nominatus, et quo fidem inscitiae pararet, atrox adversus socios. idem Subrio Flavo adsistenti adnuentique an inter ipsam cognitionem destringeret gladium caedemque patraret, rennuit infregitque impetum iam manum ad capulum referentis.


La fine ingloriosa di Pisone (Liber XV, 59)

59. Vi furono alcuni che, scoperta la congiura, mentre Milico era ascoltato e Scevino vacillava, esortarono Pisone a raggiungere il campo dei pretoriani o a salire sui rostri e saggiare gli umori dei soldati e del popolo. Se in questo tentativo - dicevano - fosse accompagnato dai complici, l'avrebbero seguito anche gli estranei e l'eco dell'iniziativa sarebbe stato grande, fatto di rilevanza fondamentale in occasione di rivolgimenti politici. Di fronte a ciò Nerone era impreparato. Anche gli uomini risoluti si smarriscono di fronte all'imprevisto: tanto meno avrebbe saputo dare una risposta con le armi quell'istrione, accompagnato, com'è ovvio, da Tigellino e dalle sue amanti. Alla prova dei fatti - argomentavano - si rivelano attuabili molte cose che ai pavidi sembrano ardue. Era vano sperare silenzio e fedeltà, contando sulla resistenza fisica e morale di tanti complici: le torture o le ricompense aprono la strada a tutto. Sarebbero venuti ad arrestare anche lui, per poi infliggergli una morte disonorevole. Quanto più glorioso invece cadere, in un gesto di dedizione per lo stato, chiamando a lottare per la libertà! E potevano anche non seguirlo i soldati e il popolo, purché lui nobilitasse la sua morte, se gli strappavano la vita, dinnanzi agli antenati e agli occhi dei posteri. Queste parole non lo scossero; si fece vedere poco in pubblico e poi si chiuse in casa a preparare l'animo alla prova suprema; giunse infine un gruppo di soldati, che Nerone aveva scelto tra le reclute e tra quelli con poco servizio: non si fidava infatti dei veterani, temendone le simpatie per Pisone. Questi morì, tagliandosi le vene delle braccia. Lasciò un testamento contenente basse adulazioni verso Nerone, e ciò per amore della moglie, una donna non nobile, pregevole solo per la bellezza, che aveva tolto al matrimonio di un amico. Si chiamava Satria Galla, e Domizio Silo il primo marito: questi con la condiscendenza, quella con l'impudicizia macchiarono per sempre il nome di Pisone.

Testo originale

Fuere qui prodita coniuratione, dum auditur Milichus, dum dubitat Scaevinus, hortarentur Pisonem pergere in castra aut rostra escendere studiaque militum et populi temptare. si conatibus eius conscii adgregarentur, secuturos etiam integros; magnamque motae rei famam, quae plurimum in novis consiliis valeret. nihil adversum haec Neroni provisum. etiam fortis viros subitis terreri, nedum ille scaenicus, Tigellino scilicet cum paelicibus suis comitante, arma contra cieret. multa experiendo confieri quae segnibus ardua videantur. frustra silentium et fidem in tot consciorum animis et corporibus sperare: cruciatui aut praemio cuncta pervia esse. venturos qui ipsum quoque vincirent, postremo indigna nece adficerent. quanto laudabilius periturum, dum amplectitur rem publicam, dum auxilia libertati invocat. miles potius deesset et plebes desereret, dum ipse maioribus, dum posteris, si vita praeriperetur, mortem adprobaret. immotus his et paululum in publico versatus, post domi secretus, animum adversum suprema firmabat, donec manus militum adveniret quos Nero tirones aut stipendiis recentis delegerat: nam vetus miles timebatur tamquam favore imbutus. obiit abruptis brachiorum venis. testamentum foedis adversus Neronem adulationibus amori uxoris dedit, quam degenerem et sola corporis forma commendatam amici matrimonio abstulerat. nomen mulieri Satria Galla, priori marito Domitius Silus: hic patientia, illa impudicitia Pisonis infamiam propagavere.