Tacito

Annales, XVI, 28

 

Le accuse di Marcello a Trasea

28. Aprì le ostilità Cossuziano; poi Marcello, rincarando la dose, gridava che erano in gioco gli interessi supremi dello stato e che la tolleranza di chi comanda era svalutata dall'arroganza degli inferiori. Troppo permissivi - sosteneva - erano stati fino a quel giorno i senatori, per aver consentito che un Tressa ribelle, che suo genero Elvidio Prisco sulle stesse folli posizioni e con loro Paconio Agrippino, che aveva ereditato dal padre l'odio contro il principato, e Curzio Montano, compositore di versi detestabili, si prendessero impunemente gioco di tutti. Chiedeva dunque che in senato fosse presente il consolare, nelle occasioni di pubbliche preghiere il sacerdote, nel giuramento il cittadino, a meno che Trasea, opponendosi alle istituzioni e ai riti degli antenati, non avesse voluto assumere apertamente il ruolo di traditore e di nemico della patria. Facesse dunque il senatore, e lui, ch'era solito proteggere i denigratori del principe, venisse a dire cosa voleva correggere o cambiare: sarebbe stato più facile accettarlo nei suoi attacchi contro singoli provvedimenti che subire il suo attuale silenzio, esprimente una condanna su tutto. Gli dispiaceva forse la pace realizzata in tutta la terra o la vittoria senza perdite ottenuta dagli eserciti? O si doveva assecondare la perversa ambizione di un uomo che soffriva della pubblica felicità, per il quale le piazze, i teatri, i templi erano come deserti, e che agitava il suo esilio come una minaccia? Per lui non esistevano le deliberazioni del senato, non le magistrature, non la città di Roma. Troncasse allora ogni rapporto con quella patria, che aveva, in passato, rifiutato d'amare e, ora, anche di vedere.

 

Testo originale

XXVIII. Et initium faciente Cossutiano, maiore ui Marcellus summam rem publicam agi clamitabat; contumacia inferiorum lenitatem imperitantis deminui. Nimium mitis ad eam diem patres, qui Thraseam desciscentem, qui generum eius Heluidium Priscum in isdem furoribus, simul Paconium Agrippinum, paterni in principes odii heredem, et Curtium Montanum detestanda carmina factitantem eludere impune sinerent. Requirere se in senatu consularem, in uotis sacerdotem, in iure iurando ciuem, nisi contra instituta et caerimonias maiorum proditorem palam et hostem Thrasea induisset. Denique agere senatorem et principis obtrectatores protegere solitus ueniret, censeret quid corrigi aut mutari uellet: facilius perlaturos singula increpantem quam nunc silentium perferrent omnia damnantis. Pacem illi per orbem terrae, an uictorias sine damno exercituum displicere? Ne hominem bonis publicis maestum, et qui fora theatra templa pro solitudine haberet, qui minitaretur exilium suum, ambitionis prauae compotem facerent. Non illi consulta haec, non magistratus aut Romanam urbem uideri. Abrumperet uitam ab ea ciuitate cuius caritatem olim, nunc et aspectum exuisset.