Il mio nome è Nessuno: l’episodio del Ciclope

 

    L’episodio dell’Odissea che maggiormente risulta legato a temi cari alla tradizione popolare orale è sicuramente l’inganno di Odisseo al Ciclope Polifemo. Nella tradizione, l’eroe si trova prigioniero di un orco dotato di un solo occhio, cannibale e che vive solitario con il suo gregge. L’eroe riesce tuttavia ad accecarlo e fuggire dall’antro in cui è tenuto segregato con i suoi compagni di avventura rivestendosi con una pelle di pecora oppure nascondendosi sotto un animale mentre questo esce dalla grotta: il racconto del Ciclope si trova in Od. IX, 180 – 535 (1-2-3-4). Questo tema si trova successivamente attestato – ma fu sviluppato in maniera indipendente – nel racconto di Sindbad il marinaio, durante il suo terzo viaggio per mare, contenuto nella raccolta Le mille ed una notte, datata approssimativamente tra l’VIII ed il X secolo, cioè circa 1500 anni dopo la composizione dell’Odissea.

    A proposito dell’episodio di Polifemo particolarmente interessante fu lo studio del noto favolista W. Grimm, che propose nel 1857 (Die Sage von Polyfem) un confronto tra il racconto omerico e le diverse varianti del medesimo attestate presso epoche e culture differenti: Grimm constatò che le versioni successive all’Odissea non contenevano nè l’episodio dell’ubriacatura dell’orco (Od. IX, 195-374), nè quello dell’inganno del nome (Od. IX, 364-370) e concluse che queste ultime dovevano aver avuto una genesi indipendente e non discendevano direttamente dall’Odissea. Quindi postulò un nucleo originario per l’episodio, un Urmythus, da cui anche Omero aveva attinto, introducendo poi elementi originali. Grimm propose inoltre un interpretazione per questo mito originario, questa “forma archetipa della mente umana”, che si ritrovava inalterata presso culture differenti grazie ad una “affinità di forme e di categorie del pensiero”. L’occhio, secondo il parere di Grimm, costituiva l’occhio del mondo, cioè il sole, dai cui risultava che l’orco accecato rappresentasse il diavolo. La lotta tra l’eroe ed il gigante simboleggiava dunque la diatesi forza bruta contro astuzia, o anche forze della Natura contro forza interiore. L’interpretazione di Grimm, tuttavia, non costituisce una risposta definitiva ed universalmente accettata, per quanto consenta una panoramica di ampio respiro sulle radici sacre e religiose di questo mito antichissimo.

    Per quanto riguarda i momenti originali del racconto omerico della lotta con il Ciclope, è bene innanzitutto notare che nessuno dei due, nè l’ubriacatura con il vino di Ismaro, nè l’inganno del nome, è strettamente indispensabile perchè il racconto si svolga compiutamente: sono entrambi episodi “superflui”, tratti probabilmente da tradizioni popolari differenti, indipendenti dal mito dell’orco accecato.

    L’inganno del nome, ad esempio, viene attestato in una tipologia di racconto in cui un eroe lotta con un diavolo, che alla fine viene ingannato perchè l’uomo gli aveva detto di chiamarsi “Io stesso”: quando i compagni del demonio vengono in suo soccorso chiedendogli chi sia la causa dei suoi mali, il diavolo risponde “io stesso”, cosicché essi lo abbandonano. Questo stesso tema si ritrova anche nella Bibbia, nella Genesi (Gen. 32,25), dove Giacobbe lotta con un angelo.

Il tema dell’ubriacatura, poi, è comune ad un grandissimo numero di racconti popolari, dove il protagonista serve da bere al suo nemico per estorcergli informazioni o per costringerlo a compiere, sotto l’influsso della potente bevanda, qualche gesto particolare.

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