La punizione divina

    Il castigo inflitto dalla divinità, tuttavia, non è mai fine a se stesso nelle Storie e deve invece servire come ammonimento per i mortali che vi assistono. Per Erodoto, ad esempio, la rovina di Troia sana la colpa di Paride, affinchè sia chiaro a tutti che “grandi sono le punizioni divine per le gravi colpe" (II, 120).

In questo senso, il fine che la divinità si propone non è un mistero per il nostro storico (almeno a posteriori). Eppure, Erodoto è anche consapevole che gli dei agiscono il più delle volte secondo criteri diversi da quelli degli uomini e sembra interrogarsi sulla “legittimità” di una punizione divina che ricade sui discendenti di chi ha effettivamente commesso il delitto. Infatti, se nel caso del già menzionato Gige, la cui colpa ricade sul re Creso qualche generazione dopo, Erodoto non si esprime (forse per rispetto nei confronti dell’oracolo di Delfi), lo storico si dilunga invece sull’episodio degli ambasciatori Persiani (VII, 137). Per espiare l’uccisione degli ambasciatori, cui si è accennato in precedenza, Sperchia e Buli da Sparta si recarono presso Serse, che tuttavia li volle risparmiare: i loro figli, invece, ambasciatori presso Artaserse, furono uccisi dagli Ateniesi nel corso della guerra del Peloponneso. Ed ecco le parole con cui lo storico commenta l’episodio: “E questo più d’ogni altro mi sembra fatto divino. Infatti era la giustizia a volere che l’ira di Taltibio si ripercuotesse sugli ambasciatori e non cessasse prima di aver avuto soddisfazione. Tuttavia, il fatto che sia ricaduta sui figli degli uomini che si erano recati dal sovrano per sedarne le ire […] mostra palesemente che il fatto fosse di origine divina”.

Per quanto poco accettabile in ottica moderna, tale pensiero mostra chiaramente che per Erodoto la distanza che separa la giustizia degli uomini da quella (insondabile) della divinità va esclusivamente accettata, lungi dall’essere compresa.

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