Una giornata a Roma

     In origine l’anno a Roma era calcolato in base al mese lunare di 355 giorni. Tutti i mesi avevano 29 giorni, tranne febbraio (28) e marzo, maggio, luglio e ottobre (31). Ogni 2 anni veniva aggiunto un mese intercalare di 22 o 23 giorni, per recuperare i giorni perduti rispetto all’anno solare. Nel 45 a.C. Giulio Cesare introdusse il calendario solare (o Giuliano) con 365 giorni e 6 ore, con l’aggiunta di un giorno al mese di febbraio ogni 4 anni.

   Il giorno, poiché veniva inserito dopo il 24, che era il sesto prima delle calende di marzo, fu detto bis sextus, cioè per la seconda volta sesto, onde il nostro “bisestile”. 

I giorni notevoli nel mese erano:

 L’anno si indicava attraverso i nomi dei consoli in carica, oppure con l’espressione Ab Urbe condita.

    La giornata dei Romani cominciava al sorgere del sole e terminava al tramonto: era suddivisa in dodici ore, più lunghe in estate e più corte in inverno. Al solstizio d’estate - il 22 o 23 giugno - un’ora durava 75 minuti del nostro orologio; al solstizio d’inverno - il 22 o 23 dicembre - ne durava solo 44. Per misurare la durata delle ore nell’arco del giorno venivano impiegati degli orologi solari. Gli orologi solari, nella loro  più semplice forma, funzionavano grazie a un’asta rigida verticale (detta gnomone) che proiettava la sua ombra su di un piano orizzontale che era munito di appositi segni (detto meridiana). Man mano che il sole saliva all’orizzonte, l’ombra dell’asta diventava sempre più corta, per tornare poi ad allungarsi quando il sole calava verso il tramonto.

    Mediante l'osservazione della lunghezza e della posizione dell’ombra – diversa a seconda delle stagioni - si poteva dunque conoscere ad ogni momento l’ora (approssimativamente) esatta. Nel 164 a.C. entrò in uso la meridiana correttamente regolata sulla latitudine di Roma (quella precedente, collocata nel Foro, non lo era ); a quest'ultima venne poi affiancata, nel 149 a.C., dalla clessidra ad acqua. I Romani dividevano le ore del giorno in due parti: 12 diurne (dalle 6 alle 18, cioè dall’alba al tramonto) e 12 notturne (dalle 18 alle 6). Le ore diurne, a cominciare dalle 6, erano indicate con i numeri cardinali: hora prima, hora secunda, hora tertia ecc. La notte era invece divisa in quattro periodi, detti vigiliae, di 3 ore ciascuna, che corrispondevano ai quattro usuali turni di guardia (infatti vigil significa sentinella). La prima vigilia andava dalle 18 alle 21.

    Il calendario romano in origine aveva 10 mesi e cominciava con Martius, poi vennero aggiunti gennaio e febbraio. Ianuarius era sacro a Giano, il dio bifronte; Februarius era il mese delle Februa, cioè le feste espiatorie; Martius era sacro al dio Marte . Aprilis apriva le feste di primavera ed era sacro a Venere. Maius era dedicato a Maia, la dea della vegetazione. Iunius era sacro a Giunone. Quintilis era il quinto mese, in origine, poi prese il nome di Iulius, in onore di Cesare. Sextilis era il sesto mese, poi Augustus. Da September a December i mesi prendevano il nome dalla posizione nel calendario.

    Secondo il mito fu Romolo, il mitico fondatore di Roma, a stabilire le regole del calendario primitivo, suddividendo l’anno in dieci mesi e chiamando il primo Martius, da suo padre Marte, il secondo Aprilis, dall’aprirsi (aperio) dei germogli, il terzo Maius da Maia, la madre di Mercurio, il quarto Iunius da Giunone e gli altri, come è immediato comprendere, dal loro numero progressivo, Quintilis, Sextilis, September, October, November e December

    Fu poi il re Numa ad aggiungere a questi altri due mesi: Januarius, dal dio Janus (Giano), e Februarius, dal sacrificio di espiazione (Februalia) che si faceva al termine di ogni anno. In seguito il mese Quintilis fu detto Julius in onore di Giulio Cesare, il Sextilis fu detto Augustus in onore di Ottaviano Augusto, il primo imperatore. L’anno romano iniziava il 15 marzo, e soltanto nel 153 a.C. fu portato al primo gennaio: in seguito a ciò mesi come September, October etc., in origine, come indica il nome, il settimo e l’ottavo, vennero ad essere in effetti il nono e il decimo, come sono tuttora. Nel calendario romano tre giorni determinati di ciascun mese avevano nomi particolari: le “calende” (Kalendae, da cui Kalendarium), che cadevano il primo giorno del mese, le “none” (Nonae), che cadevano il quinto giorno,  e le “idi” (Idus), che cadevano il tredicesimo giorno. Nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre le none e le idi cadevano due giorni dopo, cioè il 7 e il 15.

     Per indicare i singoli giorni dell’anno, i Romani prendevano come punto di riferimento queste date fisse: secondo il loro uso, il giorno precedente le calende, le none o le idi era indicato con pridie (appunto “il giorno prima”: ad es. Pridie Kalendas Ianuarias  era il 31 dicembre); viceversa gli altri giorni si ottenevano calcolando quanti giorni mancavano ad arrivare alla data fissa più vicina, contando anche il giorno di partenza e il giorno di arrivo. Una data come il dieci settembre, che cadeva quattro giorni prima delle idi del mese, si indicava dunque come ante diem quartum Idus Septembres, che generalmente sulla corrispondenza e nelle iscrizioni veniva abbreviato in a. d. IV Id. Sept. oppure, ancora più semplicemente, IV Id. Sept., sottintendendo il resto.

     L’anno romano primitivo, come già osservato, era di soli 355 giorni: per rimediare allo squilibrio tra l’anno ‘formale’ e l’anno reale ogni due anni - si trattava di un'iniziativa di Numa Pompilio - si intercalava un mese di 22 o 23 giorni, detto mensis intercalaris, o marcedonius. Questo espediente non bastò tuttavia ad impedire che progressivamente si venisse a creare un discreto disordine nel computo del tempo, tanto che i mesi non corrispondevano più alle stagioni effettive. Per porre rimedio a questa situazione nel 46 a.C. Giulio Cesare, affidandosi ai calcoli dell’astronomo alessandrino Sosigene, riformò il calendario, assegnando ai mesi lo stesso numero di giorni che hanno adesso e stabilendo che il mese di febbraio ogni quattro anni durasse 29 giorni. Anche questa riforma tuttavia si dimostrò essere imperfetta: l’anno effettivo infatti non è di 365 giorni e sei ore - secondo quanto indicato dalla riforma voluta da Cesare - ma di 365 giorni cinque ore 48 minuti e 46 secondi: l’aggiunta di un giorno ogni quattro anni era quindi leggermente eccessiva, e alla lunga si rivelò sensibile. Vi pose infine rimedio l’ultimo riformatore del calendario, Gregorio XIII, che, fondandosi sui calcoli dell’astronomo Luigi Lilio, nel 1582 soppresse dieci giorni di troppo che si erano accumulati nel corso dei secoli. La riforma gregoriana manteneva gli anni bisestili, escludendone però gli anni di fine secolo, eccetto quelli divisibili per 400.

 

    Andrea Zoia