Fin dalle radici

 

    A questo proposito, un passo che mi ha sempre impressionato per la sua lucida (e triste) analisi ed al contempo per l’amarezza e la rassegnazione di cui è impregnato è il brano di Creso e Solone dalle Storie di Erodoto (I, 32 in particolare): è quasi una dichiarazione di impotenza di fronte al destino, oltre che un richiamo a non superare quella barriera – sacra per l’uomo greco – dettata dall’ubris, oltrepassata la quale si può finire “rovesciati fin dalle radici”, quali che siano i meriti pregressi agli occhi degli dei. Per questo, dice Erodoto, prima di giudicare chi meriti veramente di essere definito felice, occorre aspettare fino all’ultimo suo giorno: "se poi, oltre a queste cose [quelle che, agli occhi di tutti, permettono di definire un uomo felice], in più finirà bene la sua vita, costui è degno di essere chiamato felice".

    Il tema del ribaltamento delle sorti umane e della fragilità dell'esistenza, così soggetta alle volubili volontà di imperscrutabili quanto capricciosi divinità, si trova anche in un frammento di Archiloco (Frag. 130 West): "Agli dei va attribuito tutto: spesso dalle sventure rimettono in piedi degli uomini che giacevano nella nera terra; e spesso capovolgono a pancia in giù uomini che pure erano ben piantati, e ad essi poi derivano molte sciagure, costui per bisogno di cibo va errando, con la mente svagata". 

    Il medesimo tema si trova inoltre in una magnifica clausola a sorpresa che chiude e suggella uno dei più bei passi di tragedia, ad esaltazione delle capacità dell’uomo: si tratta dello stasimo primo dell’Antigone di Sofocle. Qui il tragediografo ricorda che l’essere umano è quanto di più sorprendente esista, e tutto è riuscito a volgere a suo favore sulla terra, tranne la morte. Tuttavia “mai mi sia compagno di mensa, nè condivida i miei stessi pensieri, chi per aver troppo osato si sia spinto a commettere il male”. E sul finire della tragedia, quando ormai Creonte ha compreso dove l'ha portato la sua decisione di voler applicare ostinatamente le leggi scritte degli uomini, anche quando queste contraddicono quelle non scritte eppure inviolabili degli dei, il Coro gli rinfaccia: "Essere saggi è la prima condizione della felicità: non si deve mai commettere empietà nei confronti degli dei. I discorsi tracotanti dei superbi suscitano i duri colpi della sventura ed insegnano, con la vecchiaia, la saggezza (Antigone, 1347-53). E la comprensione - che giunge invariabilmente troppo tardi, quando ormai la ruota del destino ha già intrecciato e divelto i fili delle sventurate esistenze degli eroi messi in scena dai tragediografi - è il cuore della sciagura stessa e sua prima causa insieme, appunto, alle "incomprensibili" volontà divine. 

    Sempre Sofocle, questa volta nell’Edipo a Colono, ritorna sul medesimo tema: esistono dei limiti precisi cui l’uomo, nella sua fragilità, deve sottostare: "Chiunque desidera una parte maggiore di vita, trascurando la parte giusta, per me sarà il custode di un’evidente follia. Perché i giorni lunghi molte cose producono più vicine al dolore e non riusciresti a vedere dove stanno i piaceri, quando uno dovesse cadere oltre al limite conveniente (1211 - 1237)". 

    Simile il pensiero di Euripide, che afferma in un Coro (370-431) delle Baccanti, il cui tema centrale è proprio la follia (e la sua intrinseca ambiguità: è più folle Dioniso, l'ispiratore stesso della mania dagli esiti esiziali delle sue menadi, o Penteo che a lui stolidamente si oppone, eccedendo in razionalità ?) e come questa porti l'uomo alla rovina in uno scontro senza possibilità di successo con la divinità: "Il risultato di bocche senza freno e di una stoltezza senza regole è la sventura: la vita tranquilla, invece, e la saggezza rimangono salde e tengono insieme le case. I celesti, infatti, benchè abitino lontano nei cieli, osservano le vicende dei mortali. L’intelligenza ed il pensare ciò che non si attiene alla sfera dei  mortali non è saggezza. Breve la vita: per questo motivo, dunque, se uno insegue cose grandi, potrebbe non ottenere nemmeno le cose presenti. E questi, a mio avviso, sono comportamenti di folli e di uomini che male decidono". E conclude: "La saggezza è tenere la mente ed il cuore lontano da uomini che non hanno il senso della misura. Ciò che invece il popolo più umile pensa e fa, io lo accetto".

    Anche in Eschilo, ad esempio nell'Agamennone (v. 750 e seguenti), viene evidenziata l'importanza del rispetto dei limiti per l'essere umano: "Io ho un pensiero unico e diverso dagli altri: l’azione empia, infatti, dopo un po’ ne genera di più, simili alla propria stirpe; invece il Destino delle case che vivono in perfetta giustizia ha sempre bei figli. Un atto di tracotanza antica è solito generarne fra i malvagi mortali uno nuovo, prima o poi, quando giunge il giorno prefissato di una nuova nascita: è Ate insolente, nera nelle case, demone invincibile in guerra, invincibile in battaglia, empio, simile ai suoi genitori. La Giustizia brilla, invece, nelle case con cattivi sistemi di aerazione, ed onora l’uomo pio. Abbandonando invece le case incrostate d’oro con sporcizia di mani volgendo gli occhi indietro, si accosta a quelle pie, poiché non venera la potenza della ricchezza falsamente insignita di lode: e tutto guida a compimento". E' ancora molto forte in Eschilo - diversamente da quanto accadrà in Euripide, a testimonianza del fatto che non esiste forma d'arte che possa essere avulsa dalla realtà (i contatti con i filosofi del tempo) e dalla storia (le tragiche vicende di Atene, impegnata nel lungo conflitto con Sparta) - il senso della giustizia suprema (Dike, con l'iniziale maiuscola a sottolinearne l'origine sacra e l'immutabilità nel tempo), baluardo cui fare appello ma anche monito supremo, violato il quale per gli uomini non v'è scampo. 

    Che la sventura nata per il troppo osare, per aver infranto i limiti umani sfidando il divino, ricada anche sui discendenti è tema che si ritrova in Erodoto (Storie, I, 8 - 13), nell'episodio di Gige e della moglie di Candaule: Gige, fedele servitore che diventa con l'inganno (suo o nei suoi confronti ?) nuovo re dei Lidi, prendendo inoltre in sposa (da lei ricattato) la moglie del suo sovrano, dopo averlo egli stesso eliminato, in un certo senso segna il destino del suo popolo. Sui Lidi ricadranno infatti le sue colpe, o meglio dello stesso Candaule, dalla tracotanza del quale - riteneva infatti tanto bella la propria sposa da desiderare di mostrarla nuda al suo servitore Gige - tutto era nato.

    E sciagura ed inganno nato dal fatto di non conoscere è la vita di Edipo, le cui dolorose vicende, dall'abbandono dopo la nascita alla suprema gloria di aver liberato la sua città dall'oppressione della Sfinge, dal riconoscimento dell'errore che mai avrebbe voluto sapere di aver commesso all'espiazione attraverso la sofferenza propria - attraverso la cecità - ed altrui - il suicidio della moglie-madre ed il disonore caduto sulla discendenza, sono narrate ad esempio da Sofocle nell'Edipo Re e nell'Edipo a Colono. Il Coro dell'Edipo re (1524 e seguenti) così esclama, con un pensiero che richiama quello di Erodoto: "Cittadini di Tebe, osservate: questi è Edipo [...] fu l'uomo più potente ed ora è precipitato in un gorgo di sventure. Non bisogna perciò giudicare felice nessuno dei mortali prima che sia giunto al termine della vita senza aver patito il dolore". Ed è l'inconsapevolezza - l'essere cieco fisicamente ora come lo fu figuratamente prima di compiere quel duplice delitto che lo allontana dalla comunità degli uomini e che getta infamia e rovina sulla sua discendenza - a rendere, se possibile, ancora più forte il dolore.

    Tragedia nella tragedia è l'episodio della punizione di Laocoonte per aver oltraggiato la divinità (Virgilio, Eneide, II, 199 e seguenti): il sacerdote ed i suoi figli sono stritolati dalle spire di due serpenti inviati da Atena Tritonide, perchè "lui [...] colpì con una lancia il sacro Cavallo e scagliò nella parte posteriore l’empio giavellotto", osando mettere in discussione il potere divino. Allora si compie quanto voluto dagli dei, mentre gli uomini, all'oscuro di tutto, sbagliano ad interpretare quello che pure vedono e sentono, e sono sordi ad ogni saggio consiglio: i Troiani, nonostante le proteste mai credute di Cassandra, portano il Cavallo all'interno della rocca. "Quattro volte si fermò proprio sulla soglia della porta e quattro volte le armi rimbombarono dal ventre: tuttavia insistiamo, irragionevoli e ciechi di furore, e collochiamo il mostro portatore di sventura sulla rocca consacrata ... Noi sventurati, per i quali quello era l’ultimo giorno, orniamo per la città i templi degli dei di fronde festive".

    Non sempre, però, l'uomo non riceve che punizioni per il suo ardire, e talvolta la buona sorte lo premia, pur nell'altalenante succedersi di colpi di fortuna ed incredibili rovesci: è quello che accade alla tavola di Trimalcione, dove si alternano, sotto l'occhio disincantato e profondamente ironico di Petronio, i personaggi più vari; ecco ad esempio il ritratto, nello stile impareggiabile dell'autore, di un liberto decaduto: "Lo vedi quello, seduto fra i liberti? Come se l’è passata bene ! Non lo rimprovero. Si è visto il suo bel milioncino di sesterzi, ma è andato in rovina. Penso che nemmeno i capelli gli rimangano senza ipoteca. E non è per Ercole colpa sua; non c’è infatti uomo migliore di lui: ma sono stati i liberti scellerati che si sono portati via tutto. E ricordati: la pentola degli amici bolle male, e quando gli affari vanno male, gli amici si tolgono di torno. E che mestiere onesto esercitò, così come lo vedi: era impresario di pompe funebri. Era dunque solito cenare come un re: cinghiali ricoperti di pelo, capolavori di pasticceria, uccelli, cuochi, fornai. Si versava più vino sotto la sua mensa di quanto qualcuno ne abbia in cantina. Era una fantasmagoria, non un uomo. Quando anche gli affari presero una brutta piega, perché aveva paura che i creditori pensassero che fosse nei guai, pubblicò un avviso d’asta con queste parole: C. Giulio Proculo mette all’asta il superfluo dei suoi beni (Satyricon, 38)". 

    E non si può dimenticare, nel caso opposto, la descrizione, per bocca dello stesso Trimalcione, di come si possa fare fortuna, sfidando ripetutamente gli episodi di malasorte che si incontrano sulla strada di "imprenditore": "Nulla tuttavia è mai sufficiente per nessuno. Mi venne voglia di mettermi nel commercio. Per non farvela troppo lunga, feci costruire cinque navi, le riempii di vino – e allora si pagava a peso d’oro – e le spedii a Roma. Potresti pensare che l’avessi ordinato io: tutte le navi naufragarono; ed è la realtà, non è una storia. In un solo giorno Nettuno si era divorato 30 milioni di sesterzi. Pensate che mi sia arreso? Per Ercole, questi fatti non mi toccarono nemmeno, come se non fosse successo nulla. Ne costruii delle altre, più grandi, più robuste e più belle, perché nessuno dicesse che io non sono un uomo coraggioso. Sai, una grande nave ha una grande robustezza. Le riempii di nuovo di vino, lardo, fave, profumi e schiavi. A questo punto Fortunata fece un bel gesto: vendette infatti tutti i suoi ori ed i suoi vestiti e mise nelle mie mani 100 monete d’oro. Questo fu lievito per il mio patrimonio. Si fa presto quello che gli dei vogliono. Con un solo viaggio  mi tirai su 100 milioni di sesterzi. Subito mi sono ricomprato tutti i terreni che erano appartenuti al mio padrone. Mi costruisco una casa, compro mercati di schiavi e giumenti; tutto quello che toccavo cresceva come un favo di miele. Quando presi a possedere io più di quanto tutta la mia patria messa insieme possiede, passai la mano: mi ritirai dal commercio ed iniziai a fare prestiti ai liberti (Petronio, Satyricon, 76)".    

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