Tacito

Annales

 

Annales, liber IV, 7 

Druso si inimica Seiano

Tuttavia applicava tutte queste disposizioni non in modo affabile, ma burbero e per lo più incutendo paura, finchè esse non mutarono aspetto con la morte di Druso: infatti, finchè fu in vita, rimasero immutate, perché Seiano, visto che il suo potere era allora ancora agli inizi, voleva mettersi in mostra con provvedimenti intelligenti e temeva Druso come vendicatore che non celava il proprio odio e si lamentava spesso che fosse un altro – mentre lui, suo figlio, era in vita – ad essere chiamato come collaboratore per l’Impero. E quanto mancava che fosse nominato suo collega? Le prime speranze di avere il potere sono su un terreno difficile: ma, quando uno sia entrato ( in quella strada ) , ecco pronti partigiani e ministri. Era già stato costruito l’accampamento per volontà del prefetto, già consegnati i soldati; si poteva scorgere la sua effigie nel teatro di Pompeo; avrebbe avuto nipoti in comune con la famiglia dei Drusi. Dopo tutto ciò bisognava pregare per la sua moderazione, che fosse contento così. Spesso e non a poche persone ripeteva tali lamentele ed anche le sue confidenze venivano messe in giro dalla moglie ormai corrotta.

Testo originale

VII. Quae cuncta non quidem comi uia sed horridus ac plerumque formidatus retinebat tamen, donec morte Drusi uerterentur: nam dum superfuit mansere, quia Seianus incipiente adhuc potentia bonis consiliis notescere uolebat, et ultor metuebatur non occultus odii set crebro querens incolumi filio adiutorem imperii alium uocari. Et quantum superesse ut collega dicatur? primas dominandi spes in arduo: ubi sis ingressus, adesse studia et ministros. Extructa iam sponte praefecti castra, datos in manum milites; cerni effigiem eius in monimentis Cn. Pompei; communis illi cum familia Drusorum fore nepotes: precandam post haec modestiam ut contentus esset. Neque raro neque apud paucos talia iaciebat, et secreta quoque eius corrupta uxore prodebantur.

 

Annales, liber XV, 62 - 63

Seneca: vi lascio l'immagine della mia vita

62. Senza scomporsi Seneca chiede le tavole del testamento; di fronte al rifiuto del centurione, rivolto agli amici, dichiara che, poiché gli si impediva di dimostrare a essi la propria gratitudine come meritavano, lasciava loro l'unico bene che possedeva, che era anche il più bello, l'immagine della propria vita, della quale, se avessero conservato ricordo, avrebbero raggiunto la gloria di una condotta onesta e di un'amicizia incontaminata. Frena intanto le loro lacrime, ora con le parole ora, con maggiore energia, in tono autorevole, richiamandoli alla fermezza e chiedendo dove mai fossero gli insegnamenti della filosofia, dove la consapevolezza della ragione, affinata in tanti anni, contro i mali incombenti. Tutti ben conoscevano infatti la crudeltà di Nerone. Al quale non restava altro, dopo l'uccisione della madre e del fratello, che di ordinare anche l'assassinio del suo educatore e maestro.

 

Testo originale

LXII. Ille interritus poscit testamenti tabulas; ac denegante centurione conuersus ad amicos, quando meritis eorum referre gratiam prohiberetur, quod unum iam et tamen pulcherrimum habeat, imaginem uitae suae relinquere testatur, cuius si memores essent, bonarum artium famam fructum constantis amicitiae laturos. Simul lacrimas eorum modo sermone, modo intentior in modum coercentis ad firmitudinem reuocat, rogitans ubi praecepta sapientiae, ubi tot per annos meditata ratio aduersum imminentia? Cui enim ignaram fuisse saeuitiam Neronis? Neque aliud superesse post matrem fratremque interfectos quam ut educatoris praeceptorisque necem adiceret.

 

Annales, liber XV, 62 - 63

Gli ultimi istanti di Seneca

63. Dopo riflessioni di tal genere, che sembravano rivolte a tutti indistintamente, stringe fra le braccia la moglie e, inteneritosi alquanto, malgrado la forza d'animo di cui dava prova in quel momento, la prega e la scongiura di contenere il suo dolore e di non renderlo eterno, ma di trovare, nella meditazione di una vita tutta vissuta nella virtù, un decoroso aiuto a reggere il rimpianto del marito perduto. Paolina invece afferma che la morte è destinata anche a sé e chiede la mano del carnefice. Seneca allora, per non opporsi alla gloria della moglie, e anche per amore, non volendo lasciare esposta alle offese di Nerone la donna che unicamente amava: «Ti avevo indicato» le disse «come alleviare il dolore della vita, ma tu preferisci l'onore della morte: non mi opporrò a questo gesto esemplare. Possa la fermezza di una morte così intrepida essere pari in te e in me, ma sia più luminosa la tua fine.» Dopo di che il ferro recide, con un colpo solo, le vene delle loro braccia. Seneca, poiché il corpo vecchio e indebolito dal poco cibo lasciava fuoriuscire lentamente il sangue, taglia anche le vene delle gambe e dei polpacci; e, stremato dalla intensa sofferenza, per non fiaccare col proprio dolore l'animo della moglie, e per non essere indotto a cedere, di fronte ai tormenti di lei, la induce a passare in un'altra stanza. E, non venendogli meno l'eloquenza anche negli ultimi momenti, fece venire degli scrivani, cui dettò molte pagine che, divulgate nella loro forma testuale, evito qui di riferire con parole mie.

 

Testo originale

LXIII. Vbi haec atque talia uelut in commune disseruit, complectitur uxorem et paululum aduersus praesentem fortitudinem mollitus rogat oratque temperaret dolori neu aeternum susciperet, sed in contemplatione uitae per uirtutem actae desiderium mariti solaciis honestis toleraret. Illa contra sibi quoque destinatam mortem adseuerat manumque percussoris exposcit. Tum Seneca gloriae eius non aduersus, simul amore, ne sibi unice dilectam ad iniurias relinqueret, "uitae" inquit "delenimenta monstraueram tibi, tu mortis decus mauis: non inuidebo exemplo. Sit huius tam fortis exitus constantia penes utrosque par, claritudinis plus in tuo fine." Post quae eodem ictu brachia ferro exoluunt. Seneca, quoniam senile corpus et parco uictu tenuatum lenta effugia sanguini praebebat, crurum quoque et poplitum uenas abrumpit; saeuisque cruciatibus defessus, ne dolore suo animum uxoris infringeret atque ipse uisendo eius tormenta ad impatientiam delaberetur, suadet in aliud cubiculum abscedere. Et nouissimo quoque momento suppeditante eloquentia aduocatis scriptoribus pleraque tradidit, quae in uulgus edita eius uerbis inuertere supersedeo.