Composizione sociale delle comunità Cristiane

 

Per quanto riguarda l’estrazione sociale delle prime comunità cristiane, il pagano Celso affermava che il messaggio di Cristo veniva accolto soltanto da chi era privo di cultura, dagli addetti ai lavori manuali, dalle donne, dai bambini e agli schiavi, tutti simili al fondatore di questa nuova religione, un umile artigiano.

Questa equazione “primi Cristiani=emarginati e diseredati” venne coniata con intento evidentemente dispregiativo dai più antichi avversari del Cristianesimo, ma veniva smentita da chi aveva la possibilità di osservare direttamente i fatti: Plinio il Giovane riferiva che fra i Cristiani c’erano “molti ... di ogni età, di ogni rango e di entrambi i sessi”.

Le comunità cristiane presentarono sempre una composizione assai variata, ma se gli appartenenti agli strati inferiori erano in maggioranza fra i Cristiani, ciò era dovuto certamente alla composizione complessiva della società romana e non al fatto che le classi più elevate rifiutassero il Vangelo di Cristo, né che quest’ultimo fosse diretto contro di esse.

Secondo gli studi più recenti, inoltre, a partire dal 50 un progressivo processo di imborghesimento avrebbe interessato la comunità di Roma ed anche quelle del resto dell’impero: lo stesso Paolo, scrivendo nei primi anni del principato di Nerone, attesta di aver portato l’annuncio del Vangelo fin dentro “la casa di Cesare”, mentre aspettava il processo.

Partendo da queste premesse, merita ampio credito Eusebio, che nella sua Storia Ecclesiastica (V,21) afferma che ai tempi di Commodo vivevano a Roma numerosi cittadini cristiani “molto in vista per ricchezza e per famiglia”, fra cui sicuramente la concubina stessa del principe, Marcia.

A proposito della presenza di schiavi all’interno delle comunità cristiane, è bene rilevare che la Chiesa non metteva in questione l’ordine sociale esistente, perché, contestando il diritto di un uomo di asservirne un altro, i Cristiani avrebbero portato infatti alla distruzione uno dei pilastri su cui si reggeva tutto il sistema socio-economico antico.

Del lavoro e della condizione degli schiavi si parla ampiamente tanto nel Nuovo Testamento quanto negli scritti dei Padri e non c’è dubbio che entrambi vengano molto rivalutati. La schiavitù, tuttavia, viene recepita come un fatto che non costituisce un problema: rientra nell’ordine sociale precostituito, che non è, ovviamente, il miglior ordine possibile, ma che il singolo non ha il diritto di rompere a suo arbitrio. Paolo, infatti, arriva a consigliare allo schiavo cristiano di non agitarsi per ottenere la manumissione o la libertà, perchè “il tempo è breve e ... passa la figura di questo mondo” (1 Cor 7,29).

Si capisce, dunque, che, tolto di mezzo il veleno della schiavitù morale, la conservazione della situazione giuridica esistente appariva ai Cristiani sostanzialmente indifferente, se non consigliabile.

E’ interessante notare che il 313, pur segnando il trionfo del Cristianesimo, non costituì affatto l’abolizione della schiavitù: il sinodo di Gangra, anzi, lanciò nel 340 una maledizione contro chiunque avesse incitato gli schiavi a ribellarsi.

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