Tiresia

Un discorso a sé merita il personaggio di Tiresia. Egli fu uno dei più celebri indovini dell’antichità, un cieco originario di Tebe in Beozia. Il suo nome significava forse “interprete dei segni celesti”, da ricondurre etimologicamente al greco “thras”, ovvero “prodigio”. L’origine della sua cecità per il mito sono differenti: secondo un racconto, fu Atena ad accecarlo perché Tiresia, pascolando le sue greggi sull’Elicona, vide cose che occhi umani non dovevano vedere, ovvero Atena stessa che si bagnava alla fonte di Ippocrene, dove egli si era avvicinato per dissetarsi. La dea gli avrebbe allora tolto per sempre la vista e come compenso gli avrebbe donato la profezia. In una seconda versione del racconto, invece, Tiresia ebbe a vedere in gioventù due serpenti che si accoppiavano: uccisa con un bastone la femmina, si ritrovò immediatamente trasformato in femmina e così rimase finchè non si imbatté in una scena del tutto uguale e con un bastone uccise il serpente maschio e tornò uomo. Questa sua del tutto singolare esperienza fece sì che egli venisse interrogato dagli dei sui piaceri d’amore che aveva provato da uomo e da donna: il suo giudizio suscitò l’ira di Era, che per punirlo lo accecò, mentre Zeus per consolarlo gli regalò al contempo una vita lunga 7 generazioni ed il dono della profezia. La sua vita estremamente lunga ed il dono della profezia lo resero celebre nel mondo antico e le sue vicende si intrecciano con quasi tutti i principali miti Greci come interprete degli oscuri disegni divini.

Durante la guerra dei sette contro Tebe dichiarò che Tebe avrebbe ottenuto la vittoria solo se il re Meneceo si sarebbe sacrificato. Quando morì, Tiresia mantenne anche nell’Oltretomba prerogative del tutto peculiari: a differenza degli altri morti, che non erano che ombre, egli conservò la sua sensibilità ed i suoi poteri percettivi.Il ruolo di Tiresia fu tanto centrale nella mitologia che ben pochi episodi si svolgono senza che egli vi abbia un ruolo ben preciso e talora determinante. La presenza di questo veggente in miti tanto distanti nel tempo – pur nell’ottica di un passato senza tempo preciso – veniva in qualche modo giustificata sulla base della sua lunghissima esistenza.

Nella tragedia dell’Antigone, l’indovino è l’unico in grado di tenere testa a Creonte da pari a pari, anche se il sovrano lo tratta con asprezza e vorrebbe vedere anche lui sottomesso alla propria volontà. Tiresia avvisa il re dei pessimi presagi che ha tratto dai sacrifici da lui compiuti: “presagi inconcludenti di un rito indecifrabile” ed aggiunge che la città è malata per colpa del sovrano. Infine dichiara che “tutti gli uomini possono sbagliare, ma chi – una volta commesso il proprio errore – non persevera e fa invece ammenda del male in cui è caduto, costui non è più stolto né sventurato. L’ostinazione, al contrario, è segno di grettezza” (1020).

Alla violenta reazione di Creonte, Tiresia rivela allora la seconda parte della propria profezia, preannunciandogli la morte del figlio, dal momento che il re si è macchiato di una duplice colpa, verso Polinice e verso Antigone: “non passerà molto tempo e nella tua casa echeggeranno lamenti di uomini e di donne” (1077). “Poiché tu stesso mi provochi – conclude Tiresia – con tutto il mio odio scaglio contro di te, come fossi un arciere, questi strali infallibili, al cui bruciore non potrai sfuggire” (1080).

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