Creonte

E’ indiscutibilmente, con Antigone, il protagonista della tragedia, impersonificando – se si può passare questo punto di vista – il “male”, se Antigone rappresenta il “bene”. Con le sue azioni, infatti, determinerà una serie di eventi nefasti.

Antigone aveva infatti contravvenuto una sua legge, ma, essendo tale legge in opposizione alle leggi divine non scritte, la sua decisione di punirla ricadrà su di lui medesimo attraverso le morti violente di Emone – suo figlio – e di Euridice – sua moglie.

Al verso 168 Creonte dichiara apertamente come egli intenda la responsabilità del governo: “è impossibile penetrare a fondo anima intelligenza e carattere di un uomo, se costui non ha rivelato se stesso nell’esercizio del potere e delle leggi. Per me che governa lo stato senza attenersi alle decisioni più giuste, ma tiene la bocca chiusa per qualche paura, non da ora io lo stimo un essere spregevole; e parimenti non ho nessuna considerazione per chi tiene un amico in maggior conto della propria patria”.

E dopo aver spiegato perchè Polinice deve rimanere insepolto conclude (202): “mai da me i malvagi riceveranno più onore degli uomini giusti; ma io onorerò chi è devoto a questa città, da vivo e da morto”.

Il carattere sanguigno e dispotico di Creonte si evidenzia anche quando risponde stizzosamente al vecchio corifeo, definendolo “vecchio e stupido” (280)

Si rende conto che il suo comando è mal sopportato dal popolo (290) ed attribuisce tuttavia al denaro (295) la colpa di molti misfatti.

Nel colloquio con Antigone, Creonte dimostra tutto il suo dispotismo e la sua durezza di carattere: non prova pietà per lei, ma, paragonandola al “solidissimo ferro”, afferma che “anche il ferro indurito dal fuoco alla fine più agevolmente si spezza e va in frantumi” (470)

E poi: “non può permettersi di fare il superbo chi è in mano altrui”, forse sperando di vedere Antigone piegarsi ed invocare il suo perdono (472).

Antigone è “arrogante”, a suo dire, perchè ha trasgredito la sua legge e poi si è vantata del suo crimine. Ma forse quello che più tormenta Creonte a proposito di Antigone è la femminilità di quest’ultima, ovvero il fatto che sia stata una donna a sfidare i suoi voleri (675).

Così come ritiene colpevole anche Ismene, solo per il fatto di averla vista aggirarsi per casa turbata.

Spietato infine si dimostra nell’ultimo serrato dialogo con Antigone: “il nemico non è mai un amico, neppure da morto” e “Allora, se vuoi amare, scendi sotto terra ed ama i morti. Io, finchè vivo, non prenderò ordini da una donna” (525).

Creonte si dimostra veramente cattivo con Ismene, evidentemente più debole di Antigone; la definisce “vipera strisciante dentro la mia casa, per succhiarmi il sangue di nascosto”, “mostro” e “rovina del mio trono” (535)

Poi Creonte rivolge il suo astio verso il figlio, sul quale ha il medesimo atteggiamento di “proprietà” come sul popolo: dovere di un figlio, dice, è “assecondare in tutto la volontà paterna”. E poi: “chi è saggio verso i propri familiari si mostrerà giusto anche verso i cittadini; ma chi trasgredisce e viola le leggi... non avrà mai il mio consenso... A chiunque la città abbia affidato il potere, a costui si deve obbedienza nelle cose grandi e piccole, giuste o non giuste. E sono convinto che un uomo disciplinato saprà ben comandare come ha saputo ben obbedire e che nel turbine della battaglia resisterà nel posto assegnatogli da vero ed intrepido compagno. Non c’è male più grave dell’anarchia che rovina le città, turba le famiglie, spezza i ranghi e provoca la fuga nel corso della battaglia” (655).

Al culmine del suo diverbio con il figlio vorrebbe addirittura – per punire entrambi allo stesso tempo – ucciderla davanti ai suoi occhi (761). Quando infine comprende che forse la ragione non è interamante dalla sua parte, si rivela del tutto cinico: “le nostre mani sono pure – afferma – e ciò di cui la priviamo è il diritto a rivedere la luce” (890). Non si sente per nulla macchiato dalla colpa di mandare a morte Antigone per il semplice fatto di non toglierle la vita con le proprie mani. Perfino con l’indovino tebano Tiresia Creonte non si sottomette al giudizio, ma è arrogante e sprezzante, giungendo ad accusarlo di avidità di denaro (1050).

Turbato dalla profezia di Tiresia, si lascia poi consigliare dal vecchio corifeo e muta infine opinione, ma ormai il destino è compiuto ed è troppo tardi per rimediare: “temo sia meglio osservare fino al termine della propria vita le leggi stabilite (i.e. le leggi divine)” (1110). E la punizione divina non tarda ad arrivare: suo figlio si è ucciso. Solo allora Creonte arriva a parlare di “errori ostinati, errori fatali della mia mente dissennata”, di “infausta decisione” e di “una follia”. “Finalmente ho capito” – esclama Creonte – “Un dio […] per atroci sentieri mi traviò e con il suo piede calpestò la mia felicità” (1260).

Quando infine apprende che anche la moglie Euridice si è tolta la vita, dichiara di essere “ormai un uomo morto” (1287) e si augura di essere anch’egli “trapassato da una spada affilata” (1310), lui che è “affondato in un immenso dolore” (1312). Continuerà ad invocare la morte (1330), perché “un destino intollerabile è balzato sul suo capo” (1345).

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