La lettera di Clemente Romano ai Corinzi

    Il più antico documento letterario della religione cristiana che possa essere datato, immediatamente posteriore al tempo degli apostoli, è la lettera di Clemente Romano ai Corinzi scritta nell’ultima decade del primo secolo. E’ interessante osservare il mutamento avvenuto nel modo di pensare dei Cristiani ad appena trent’anni dalla morte di Paolo. Quest’ultimo aveva scritto alla comunità dei Corinzi nell’intenzione di appianarne le controversie ; Clemente, vescovo di Roma, si rivolge alla medesima comunità perché essa rifiutava di riconoscere l’autorità del proprio vescovo : nelle forme della antica arte retorica, adducendo molti esempi, dimostra loro gli effetti tragici della sedizione (sta@siv) e della disobbedienza. Quando poi arriva al punto in cui è necessario introdurre il topos più terrificante, che, cioè, le discordie intestine travolsero grandi regni, Clemente si astiene dal dare esempi per timore di addentrarsi eccessivamente nella storia pagana e profana, ma applica senza esitare le regole dell’eloquenza politica : il tema da lui suggerito, ad esempio, è sempre stato propagandato dai poeti, dai sofisti e da moltissimi uomini di governo della polis greca classica ( éomo@noia).

In età romana la Concordia è persino diventata una dea, raffigurata sulle monete ed invocata alle nozze ed alle feste : i filosofi l’avevano celebrata come potenza divina che regge l’universo e mantiene nel mondo la pace e l’ordine. Clemente nel capitolo XX della lettera fa esplicito riferimento a queste concezioni, quando nomina la concordia come “ordine cosmico del Tutto”.

L’esempio di Paolo in I Cor.12 deve aver incoraggiato Clemente a ricorrere in questa congiuntura alla tradizione classica greca. Paolo aveva raccontato ai Corinzi l’apologo famoso della lite fra le parti del corpo umano : come essi rifiutarono di compiere le funzioni che erano loro proprie all’interno dell’organismo, sino a che furono costretti a comprendere che erano tutte parti di un corpo e solo come tali potevano esistere. Era la stessa favola che Menenio Agrippa aveva raccontato alla plebe quando questa aveva lasciato la città di Roma e si era ritirata sul Monte Sacro, dopo aver deciso di non voler più vivere con i patrizi. Tutti conoscono questa storia da Livio, ma compariva anche in diversi storici greci, perché sembra risalire ad un discorso simile pronunciato da un sofista greco.

Il discorso affrontato da Clemente, però, è diverso : sicuramente si servì per il suo racconto di una fonte stoica, soprattutto nell’entusiastico elogio dell’armonia, signora di tutta la natura. E’ significativo che Clemente, per sottolineare il concetto di coralità e di collaborazione fra tutti i Cristiani faccia uso del termine ekklesiéa, che rimandava sicuramente la mente del lettore al suo significato più arcaico ed originale, l’assemblea di tutti i cittadini della polis greca. Clemente ricorre con grande frequenza nella sua lettera alla tradizione della paideia classica, nella quale ha saldissime radici. La concezione organica della società, che egli riprende dal pensiero politico greco, acquista nelle sue mani un significato quasi mistico, di unità nel corpo di Cristo.

Dopo aver sottolineato, nel capitolo XXXVII, il parallelismo con l’esercito romano e la sua disciplina gerarchica, Clemente osa attingere persino alla tragedia greca, citando Sofocle ed Euripide: i grandi non possono esistere senza i piccoli ed i piccoli senza i grandi (famoso è il coro di Sofocle nell’Aiace, al v. 158). Clemente sottolinea l’importanza delle parti più piccole del corpo umano per la vita del corpo intero, affermando al termine della sua argomentazione che “tutte respirano insieme” ( sunpnei^, latino conspirant) e dunque subordinano se stesse alla conservazione dell’impero. Il verbo greco sumpne@w significa avere in comune il pne@uma, cioè lo spirito. Il fatto che Clemente usi questa parola per le parti del corpo implica che un solo spirito permea e anima tutto l’organismo. Quest’idea veniva direttamente dalla medicina greca (su@gkrasiv) e poi dalla filosofia stoica.

Clemente aveva bisogno per i suoi fini di un ordo christianus, per rinsaldare la Chiesa in rapida espansione : è chiaro l’intento “educativo” rivolto nella lettera a tutti i membri della comunità, dai diaconi ai laici, perché rispettino ciascuno il proprio posto.

Fondamentale è, all’interno della lettera di Clemente, l’utilizzo del termine paideia, utilizzato generalmente nell’espressione “paidei@a tou^ Kuri@ou”. Ciò che di meglio egli ha desunto da una vastissima tradizione filosofica e culturale propria di numerosissime fonti pagane da lui citate indirettamente è stato magistralmente inserito entro questo vasto concetto di paideia divina, perché, se così non fosse, non avrebbe potuto servirsene per il suo scopo, che è quello di convincere il popolo di Corinto della verità del suo insegnamento. Le verità e le sententiae dei poeti e dei pensatori greci che egli incorpora nella sua paideia cristiana hanno lo scopo di dare la forza dell’evidenza a tutta l’opera. L’alto valore dato alla paideia in quest’ultima parte della lettera, nella quale Clemente cerca di far comprendere a coloro cui si rivolge il fine (sko@pov) del suo scritto, non può essere interamente spiegato dalla parte che tale idea ha avuto sino ad allora all’interno del pensiero cristiano esso è stato senza alcun dubbio enormemente accresciuto dalla valutazione che della paideia è stata data nella civiltà greca.

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